“Victor Erice: un poeta” di Gianni Quilici

L’avvenimento, quasi per niente recepito dall’insieme dei critici, a Pesaro è stato, ma lo era a priori, la retrospettiva completa di Victor Erice.
“Quasi per niente recepito …”. Lo abbiamo visto nello scarso spazio che i quotidiani prima (ed era scontato per molti di essi), e le riviste specializzate dopo * (ahi, ahi!), hanno dedicato a Erice. Anche la Mostra stessa, che ha realizzato ben 5 cataloghi, non ne ha previsto alcuno per lui. E non si può certo giustificare con la filmografia limitata, perché Erice non è soltanto un creatore di storie cinematografiche, è pure un regista che ha idee profonde sul cinema, sui film e sui registi stessi. La prova: uno dei punti imprevedibilmente più alti della Mostra è stata la sua lezione di cinema, tenuta alla fine della retrospettiva.
Victor Erice ha tenuto, infatti, una vera e propria lezione, tracciando, per un verso, le linee di sviluppo generali del cinema degli ultimi 60 anni, attraverso alcune pellicole decisive, che hanno avuto (per lui) la funzione di “apertura degli occhi”: Roma città aperta” (mostrare tutto), A’ bout de souffle ( rompere le convenzioni cinematografiche), Hiroshima, mon amour (fondere la storia personale con quella collettiva); cogliendo, per un altro verso, la morte del cinema nella perdita della dimensione popolare e collettiva del cinema classico generato dalla crescita di nuove tecnologie. Detto così pare banale, al contrario tutta la relazione è stata ricca di finezze interpretative, che hanno aperto un botta e risposta col pubblico, andato oltre ogni tradizione festivaliera.

Ma perché questa retrospettiva è stato un avvenimento?
La prima ragione è, di per sé banale, perché descrittiva.
Erice è l’esatto opposto di Fassbinder. Tanto il regista tedesco è stato, nella sua breve esistenza, torrenziale nella realizzazione di film, tanto il regista spagnolo è stato, finora, parco. Sono soltanto tre i lungometraggi realizzati dal 1973 ad oggi, ossia circa un film ogni 10 anni. Una forma anche questa di eroismo, in un mondo, dove per esistere devi essere presente.

Ma è la seconda ragione, che può rendere mitica questa lentezza. Come già detto, Erice ha realizzato soltanto tre lungometraggi. Uno di questi, il secondo, El Sur (1982), pur contenendo i temi cari al regista, è poco riuscito, per una ragione molto pratica: le riprese vennero interrotte, addirittura, poco dopo la metà del tempo previsto e ciò si vede in un finale che risulta così troncato da apparire una fuga nel sentimentalismo.

La terza pellicola, El sol del membrille (1993), è, invece, uno straordinario film sulla creazione, in questo caso, pittorica. Il protagonista è un vero pittore, Antonio Lopez, che vuole dipingere un albero di melocotogno catturando nel quadro ogni minimo dettaglio: i raggi del sole, le ombre, le sovrapposizioni. La genialità ed il coraggio del film è di seguirlo in questo tentativo eroico: raggiungere la perfezione, cioè dipingere il melocotogno così come esso è, nelle minime sfumature. Per questo Antonio Lopez sceglie un punto di vista, lo misura e controlla, facendo di questo albero e di questi frutti un mondo.

Diventa così contemporaneamente un film sul tempo, in cui anche le zone morte assumono un valore, un senso, una risonanza; diventa un film sullo sguardo, lo sguardo serenamente maniacale del pittore, quello della macchina da presa, ma anche lo sguardo nostro, dello spettatore; diventa un film sull’artista, che vive la tensione creativa dello svolgersi di un’opera, non solo nel predisporla e dipingerla, ma anche nel discuterla, ragionarla, confrontarsi. Un film dove la lentezza è funzionale al contenuto, è il tempo dell’artista, il microcosmo della creazione.

Ma è con il suo primo film, Lo spirito dell’alveare (El espiritu de la colmena) (1973), che Victor Erice realizza un capolavoro che rimarrà nella storia del cinema, perché è forse uno dei più poetici e sottili film sull’infanzia (e non solo) che è stato mai fatto. Scriveva di questa pellicola qualche anno fa Lorenzo Pellizzari su “Cineforum”: “Ciò che è certo è che è segnata dalle stigmate dell’immortalità (per piccola che sia); …chi l’ha vista una volta soltanto non riuscirà più a scrollarsene di dosso la sequela di immagini.”

E’ un film in cui si fondono in modo mirabilmente poetico quel senso della verità dell’immagine, per cui quel villaggio della Meseta castigliana, perso tra sconfinati spazi, appare più evocato che documentato, ossia più reale della realtà stessa; con una percezione del tempo quasi immobile, dilatata, scandita dal silenzio e dalla solitudine dei protagonisti, vicini e separati, in cui il tempo presente è come sepolto dal desiderio di un futuro altro, che si può soltanto presagire, ma verso cui ci si sente impotenti.

Al centro di questo villaggio, dove una domenica arriva su un camion ambulante il cinema, nei panni del Frankenstein di James Whale, è collocato un palazzotto, dove vivono un uomo colto, silenzioso e dedito all’allevamento delle api, la moglie graziosa, amabile e che coltiva sogni di fuga e due adorabili bambine. Il film presenta e sviluppa queste solitudini per poi approfondire soprattutto Ana, la bambina più piccola, la sola che si contrappone senza saperlo al presente, in nome di una solidarietà istintiva, dapprima fantasmaticamente verso il mostro Frankenstein ,verso cui prova paura e attrazione e poi verso un fuggiasco repubblicano (siamo nel 1940, appena dopo la guerra civile), che essa scopre ferito in una casupola abbandonata tra spazi aperti.

In un film che ha tanti livelli di lettura (psicologici, sociali, politici), la figura di Ana acquista una dimensione reale e simbolica notevole: a cominciare dagli occhi grandi e sensibili della sua straordinaria interprete (Ana Torrent), alla gamma di sentimenti, di immaginazioni e di sogni che vive, alle scelte coraggiose che compie. Un film apparentemente semplice, perché molto è implicito, pochissimo è detto, molto è mostrato con larghi spazi di mistero.

* E’ uscito su Cineforum 448, al momento di andare in stampa, un bel saggio di Paolo Vecchi insieme alla lezione di cinema tenuta da Erice a Pesaro

da La linea dell’occhio n. 53

VICTOR ERICE (San Sebastian 1940)

1973: El espiritu de la colmena (Lo spirito dell’alveare)
1982: El sur
1992: El sol del membrillo
2002: Alumbramiento (Parto) cortom. da “Ten Minutes

roberto costa said,

Marzo 23, 2009 @ 20:54

Di Victor Erice ho visto Lo spirito dell’alveare ed El sur, e non mi hanno favorevolmente impressionato. La cosa migliore di questi due film è probabilmente lo sguardo sensibile sul mondo dell’infanzia, sui misteri che nasconde e su quelli da cui è suggestionata. Complessivamente però mi sembrano opere non molto riuscite: El sur mi pare poco coerente, anche dal punto di vista stilistico, forse per le ragioni indicate da Quilici nel suo articolo; Lo spirito dell’alveare in effetti offre spunti poetici interessanti, ma trovo alcune soluzioni narrative un po’ forzate o pretestuose. Quanto alla pittura, è chiaramente uno dei principali punti di riferimento di Erice, ma i suoi quadri, sui quali si sofferma il ritmo prevalentemente contemplativo del montaggio, solo raramente palpitano di emozione e tensione, e i film alla fine risultano piuttosto noiosi. (Percepiamo un approccio artistico freddo, un po’ alla Straub-Huillet ma senza il loro rigore). Quello di Erice è uno sguardo originale, autoriale, ma ad un livello di visione (ancora!) acerbo. Un caso per certi versi simile a quello del nostro Silvano Agosti.

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