“Due uomini e un armadio” di Roman Polanski

di Gianni Quilici

Immaginiamo di aver visto questo corto nel 1958 a Bruxelles o a San Francisco in due Festival, in cui otterrà importanti riconoscimenti. Che cosa avremmo pensato?

Forse avremmo avuto la stessa impressione che già provammo qualche anno fa: di trovarci di fronte ad un piccolo capolavoro [piccolo per la dimensione temporale: 15 minuti].

E però, diversamente da qualche anno fa, ci saremmo certamente chiesti:” Ma chi è questo regista?”

Avremmo forse memorizzato il nome accattivante: “Roman Polanski”; l’età: soltanto 21 anni e saremmo forse rimasti ancora più stupiti nel sapere della sua presenza nel film nella particina del teppistello vigliacco, che sferra, protetto dal gruppo, una gragnola di pugni a uno dei due uomini. Stupiti, perché Polanski sembra ancora più giovane dei suoi 21 anni, quasi un minorenne.

Invece già in Due uomini e un armadio (egli) dimostra una maturità di pensiero e di regia, che non solo regge il tempo, ma che lo fa essere oggi (questo cortometraggio), in questa congiuntura storica, sicuramente più comprensibile.  Non è un caso. Torniamo un attimo indietro, facendoci aiutare dal libro autobiografico dello stesso Polanski (1).

In quegli anni P. è un allievo della (famosa) Scuola di Lodz e ha appena realizzato un corto provocatorio (per quei tempi) Rompiamo la festa  ( Rorbijemy Zabawe, 1958),  punito dai responsabili della Scuola con una dura “ammenda cinematografica”: fare un film supplementare, che P. girerà, infatti, durante le vacanze: Due uomini e un armadio, appunto.

Polanski, comunque, ha già le idee chiare (e pertinenti) sulle peculiarità che un cortometraggio deve contenere. Primo: essere “essenziale, senza dialogo” (2). Secondo: essere semplice, perché, come dichiara “più siete semplici, più voi siete complicati al tempo stesso, ma in modo più profondo, non superficiale” (3)

Ci riesce? Sì, diciamo la parola, genialmente.Vediamo perché.

La storia è molto elementare e può essere riassunta in una frase. Due uomini con un armadio, che vengono misteriosamente dal mare e che al mare, con lo stesso armadio, ritornano, dopo aver attraversato una città indifferente e ostile.

Il primo elemento da sottolineare è già nella sceneggiatura. Una vicenda molto metaforica (il mare da cui si viene e a cui si torna, l’armadio come oggetto-simbolo necessario, pesante, estraneo alla città), che viene filmata e recitata naturalisticamente, in modo da fare risultare del tutto verosimile ciò che invece appare improbabile o assurdo.  Si viene a creare, come osserva Stefano Rulli, una “osmosi stilistica tra piano surreale e piano realistico della narrazione” (4). La pellicola, cioè, rimane continuamente sospesa tra il visibile e l’invisibile, tra ciò che si vede e qualcosa di indefinibile che sta oltre.  E questo perché nella struttura del film entrano in gioco altri elementi linguistici.

La caratterizzazione dei due uomini: non portatori di un messaggio, di un’ideologia, ma semplici, quasi inespressivi, gioiosi, almeno all’inizio quando sulla spiaggia danzano la loro felicità di essere e tuttavia forse per questo diversi, marziani loro malgrado,  in una città invece ordinata, incasellata, retta da regole non scritte, ma inflessibili, che li respinge da tram (stipati), da ristoranti (distinti), da hotel (sfiziosi), da rapporti desiderati (la bella ragazza fermata per strada).

In questo contesto la musica sobria e affascinante, che si alza dal clarinetto di Krzysztof Komeda sottolinea due aspetti diversi e complementari: uno, l’andare, il girovagare senza una meta precisa dei due uomini; l’altro, la malinconia, il desiderio di un altrove a cui forse si aspira, che non c’è,  che forse ci sarà.

Ecco che qui si rivela molto giusta la scelta di eliminare i dialoghi, che tenderebbero a definire o a circoscrivere una vicenda, che invece diventa enormemente metaforica ed in cui certe immagini assumono più sensi, oltre il semplice realismo.

Pensiamo alle lunghe carrellate su desolati paesaggi, in cui le nuvolette bianche acquistano una dimensione quasi metafisica; oppure alle “gigantesche cataste di botte vuote”, assurde e oppressive, che evidenziano  una atmosfera tipicamente kafkiana, dialetticamente alleggerita tuttavia dal contrappunto musicale malinconico-andante.

Ciò che rimane è un senso doloroso e struggente di ciò che si potrebbe chiamare “vita”. Un senso non definito, sfuggente, misterioso; ed anche uno stile sobrio: appassionato e al tempo stesso distaccato.

Infine, dietro questo cortometraggio, un giovane regista polacco di soli 21 anni, che però ha alle spalle, questo lo avremmo scoperto dopo, un’infanzia dolorosissima: uno dei tanti bambini sbandati, che affollavano le strade polacche e che avevano conosciuto il ghetto e gli orrori del  nazismo sulla propria pelle.      

                                                                                             Gianni Quilici

Note

1. Roman Polanski, Roman Polanski Bompiani. 1984. 2. Cahiers du Cinéma. Numero 175, anno 1966.3. Positif. Numero 102, anno 1969. 4. Stefano Rulli e Flavio De Bernardinis, Roman Polanski l’Unità/Il Castoro. 1995.

Dway Ludzie z szafa (Due uomini e un armadio) di Roman Polanski con Kuba Goldberg, Henryk Kluba; fotografia: Maciej Kijowcki, Kierownik Zdjek e Ryszard Borski; musica: Krzysztof Komeda; Polonia 1958; durata: 15’. 

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