Annotazioni psicoanalitiche sulla re-visione di “Il rito” di Ingmar Bergman

bergman il rito 2 (22)di Riccardo Dalle Luche

Film oscurissimo e perturbante ad una prima visione, Il rito (1969), film teatrale girato originariamente per le televisioni scandinave,  conclude il ciclo di pellicole bergmaniane ormai classiche a forte valenza psicoanalitica iniziate con Il posto delle fragole (1959) e proseguite poi soprattutto con Come in uno specchio (1961), Persona (1966) e L’ora del lupo (1968); in questi film, realizzati in un connubio magico con il grande fotografo Sven Nykvist ed una serie di grandissimi attori del teatro scandinavo come Victor Sjostrom, Ingrid Thulin, Harriet Andersson, Bibi Andersson, Gunnar Bjornston, Liv Ullmann, Max von Sydow, in buona parte nella magica location dell’Isola di Fåro, eletta da Bergman buon ritiro e domicilio dell’anima il grande autore svedese, sembra perseguire soprattutto la messa in scena del proprio mondo interiore, delle proprie angosce, conflittualità, visioni e allucinazioni.

E’ noto dalle biografie e autobiografie che Bergman in diversi periodi ha sofferto serie personali problematiche psichiatriche, esitate anche in un ricovero, ma pare anche certo che non si sia mai steso sul lettino psicoanalitico, ed abbia piuttosto preferito curarsi mettendo in scena il proprio perturbato mondo interno, cercando di contenerlo nella magia della struttura dialogica teatrale, animandoli col magnifico bianco e nero iperrealistico, ma anche onirico e visionario,  di Sven Nykvist.

Se Buñuel, Antonioni e Fellini in quegli stessi anni si sono addentrati in modo più o meno esplicito e diversamente autoanalitico nel proprio mondo interno, utilizzando il cinema per rappresentare sogni, ricordi e situazioni surreali, quello di Bergman si può più precisamente definire un cinema/teatro dell’anima, nel quale personaggi, situazioni e dialoghi rimandano in continuazione al suo mondo interno, costringendo lo spettatore, in ogni visione di un suo film, ad una esercizio interpretativo, talora non semplice, volto a dipanare il senso di quanto viene rappresentato.

Per questo motivo, il cinema di Bergman, in particolare nel periodo citato (1959-1969), si offre elettivamente ad una lettura psicoanalitica. Con essa però si intreccia, talora in modo inestricabile, come vedremo, la riflessione bergmaniana sull’attore, sul mestiere dell’attore, sulla maschera, sulla molteplicità dell’Io, e su quanto di tutto questo concerne tutti, lui stesso e gli spettatori delle sue opere.

La riflessione sul volto e la maschera era già stata iniziata con Il volto (1958), prosegue esplicitamente con Come in uno specchio e Persona, che ha come tema principale la malattia di un’attrice, ed il cui titolo rimanda alla maschera teatrale classica, con L’ora del lupo, nel quale volti, maschere ed identità si raddoppiano allucinatoriamente e, come vedremo, con Il rito, il cui titolo rimanda appunto alla messa in scena rituale, sacra, da parte di tre attori forniti di maschere del teatro classico, che, per questa scena, divengono oggetto di una procedura giudiziaria per oscenità.

A detta dello stesso Bergman, i tre attori, due uomini e una donna, rappresentano parti della sua stessa personalità, ma anche il giudice, che finisce poi per essere “processato” dal più impulsivo e aggressivo degli attori, Sebastian, e, alla fine, per cercare l’ascolto confessionale (il prete incappucciato che viene, inquadrato per un attimo, è interpretato dallo stesso Bergman) e poi per autoconfessarsi pubblicamente di fronte all’imminenza della propria morte, ha numerosi aspetti che ricordano la vita di Bergman. Dei tre artisti Hans Winkelman, il capocomico, appare quello più equilibrato e capace di mediare il rapporto con la realtà, tuttavia nasconde un fondo masochistico, un piacere nell’umiliazione che gli fa sopportare la relazione della moglie, la bellissima Thea (alias Claudia Monteverdi)  con Sebastian e, soprattutto, la sua instabilità emotiva e identitaria che la fa compiacere chiunque, perfino il giudice quando ne tenta lo stupro.

I tre personaggi e il giudice, così ben delineati da Bergman e interpretati stupendamente da  Ingrid Thulin (Thea), Andres Ek (Sebastian) e Gunnar Bjornstrom (Hans), Erik Hell (il giudice), sono in realtà parti e/o istanze dell’Io bergmaniano. L’autore si distribuisce in loro liberamente, concependosi come molteplice e scisso in parti diversissime tra di loro e in apparenza scarsamente conciliabili, in realtà fortemente interdipendenti.

Vari dettagli attribuiti ai personaggi rimandano direttamente alla biografia di Bergman, ad esempio i numerosi figli avuti da precedenti relazioni che gli attori mantengono legalmente senza avere con loro alcun legame, le problematiche di ingaggi e fiscali che assillano il capocomico (come assillarono per anni Bergman), le ossessioni di colpa, sessuali (come far godere Thea Hans lo chiarisce a Sebastian con un distacco razionale impressionante), i sentimenti di vergogna, le umiliazioni inconsce che sembrano alimentare reattivamente l’insofferenza e l’aggressività verso l’autorità costituita. Altri elementi appaiono invece meno immediatamente comprensibili, come il fatto che Sebastian sia stato in carcere per l’omicidio del suo compagno omosessuale, di cui era molto innamorato, che a sua volta sarebbe stato il primo marito di Thea. Questi indizi rinviano ad una  comunione omnisessuale del trio, un coacervo erotico regressivo che, nel suo oscillare tra conscio e inconscio, il ricordo, la tentazione e l’agito, cementifica il loro rapporto di interdipendenza.

La risoluzione del film, l’atto teatrale incriminato, il rito, nella sua ambigua valenza religiosa, pagana e cristiana, sembra indicare la riconciliazione delle tre parti nell’immagine mascherata riflessa in un bacile di vino/sangue, che il capocomico vede rispecchiata e di cui si abbevera in una sorta di oscena Eucarestia narcisistica: i due uomini portano maschere e protesi itifalliche mentre Thea, i seni scoperti, assiste su un trono come Dea Madre, scandendo il tempo col tamburo; il giudice assiste al rito e, già fortemente provato, ne muore: un ghigno soddisfatto si accenna sulle labbra di Thea. Questo rito sembra indicare in modo definitivo come per Bergman la maschera sia  una condizione tragica e drammatica per ogni individuo, costretto a instaurare con se stesso un rapporto di lacrime (quelle di Thea, col volto da clown), e sangue (il simbolo del rito), se vuole anche solo cercare di essere autentico.

Il rito sembra concludere la stagione più drammaticamente autoanalitica di Bergman, lasciando la strada a opere narrativamente più convenzionali e meno autocentrate, anche se talora ancora fortemente autobiografiche, come il notissimo Fanny e Alexander (1982) o Dopo la prova (1984) uno dei suoi ultimi film, in cui compare una matura Ingrid Thulin, ancora una volta con protagonista un vecchio attore alle prese, ormai perlopiù retrospettivamente,  con la questione della propria identità.

Riferimenti bibliografici:

Bergman I.: Lanterna magica (1987) tr. It Garzanti.

Bergman I: Immagini (1992) tr. It. Grazanti.

Dalle Luche R.: Viaggio a Fårö, sulle tracce di Ingmar Bergman. www.lalineadell’occhio, ottobre 2009.

Ullman L.: Devenir.  Tr. It Cambiare, Mondadori, 1980.

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