PERCORSI. “Cinema e cibo” di Nino Muzzi

di Nino Muzzi

Ci vorrebbero dei volumi, ordinati in serie per Paese o per genere, per descrivere il rapporto fra Cinema e cibo. Ma servirebbe a poco un lavoro del genere, se mancasse alla base una qualche ipotesi iniziale, un’intuizione che ti è venuta guardando, per esempio, un film americano o francese –due tipi di cinema questi che guardano al cibo con occhio totalmente diverso.
Ma quale impostazione potrebbe essere convincente?

Ovviamente per ogni “civilta`” il Cinema registra un rapporto col cibo nettamente diverso. Una prima divisione fra il Nord e il Sud dell’Europa cristiana vedrebbe una civiltà del Nord, a dominanza protestante, che antepone il bere al mangiare, anzi disprezza apertamente il cibo, secondo quanto proclama il motto tedesco: Dummheit frißt, Intelligenz säuft (la Stupidaggine mangia a bestia, l’Intelligenza beve a bestia).

Nei film di Bergman gli eroi, stanchi, seduti a tavola, discutono, bevendo da calici prestigiosi un non so quale imprecisato nettare –spesso vero e proprio vino- e parlano male di Milano, città stressante, con gente abbrutita dal caos cittadino (Scene da un matrimonio).

La Germania mette in tavola la frugalità, spesso legata alla tradizione (Il tamburo di latta): il pranzo di Natale con l’oca farcita di mele verdi diventa ampiamente identificativo, ma non ha sapore… In effetti non basta presentare un piatto che fa scena, se i protagonisti non ne percorrono i sapori, come invece fa ampiamente il Professore in Cuore di cane (di Bortko), quando a tavola assaggia e fa assaggiare al suo assistente antipasti caldi e vodka di prima scelta.

Quindi esiste questa prima divisione storica fra la frugalità del Nord e la crapula cattolica del Sud, risalente alla Riforma protestante, ma altre divisioni vi s’intrecciano, quali la ricchezza, il prestigio, la raffinatezza delle classi dirigenti contro la frugalità delle classi subalterne, che si nutrono spesso di minestre, di zuppe di verdura o di pane e formaggio –restando la carne per lungo tempo un elemento di distinzione sociale, finché non scattano gli anni sessanta dove l’allevamento di batteria scaccia il pollo dalla tavola dei ricchi e offre fettine di vitello anche alla mensa del popolo. Allora De Sica ne Il conte Max insegna ad Albertone “come” si deve mangiare la carne (“Niente scarpetta, mi raccomando…”).

Il Cinema deve trovare sempre uno specifico filmico che esprima questo dato sociale: c’è modo e modo anche di addentare un panino (l’America insegna): c’è il modo del giovane avvocato o del manager frettoloso, c’è il modo del gangster (Pulp fiction), c’è il modo della donna (frugalissimo, accompagnato da un bicchiere di latte, come in Psycho). Il modo di addentare riclassifica la gente, ne mostra la vera provenienza. Saper indossare un vestito sembra più facile per il protagonista povero che saper mangiare alla mensa del ricco, come dimostrano le idiosincrasie gastronomiche della protagonista di Criminali da strapazzo di Woody Allen. E Woody Allen stesso si presenta come grande mangiatore di Cheeseburger per recuperare simpatia anche negli strati più popolari del pubblico, quello più ostile alla sua comicità.

C’è poi l’assaggio del cibo straniero, a cominciare da Un americano a Roma che tenta si scavalcare l’italianità dello spaghetto per addentare pane e mostarda, ma non ce la fa : Macaroni, io ve distruggo! Oppure il malinconico padre di Gena Rowlands nel film Una moglie di Cassavetes che all’ennesima offerta del genero (P. Falck) di restare a cena, sbotta dicendo:”Qui si mangia solo spaghetti, e io non li digerisco!”. Il cibo straniero diventa una prova del fuoco dell’accettazione dell’altro, un invito al traghetto in un’altra civiltà, come nel film Hamam- Il bagno turco dove la donna turca conquista Gassman con i mille bocconcini della sua cucina (il miglior invito a restare in Turchia, dopo l’Hamam, s’intende…). Se c’è da un lato il rapporto cibo-civiltà, dall’altro esiste anche una specifica funzione espressiva del cibo all’interno di ogni civiltà.

Il cibo in Italia significa famiglia a tavola, e quindi riconciliazione (non esisterà mai una scena di lite a tavola dove due attori si lanciano manciate di spaghetti!) e quindi godimento comune, in Francia, dove il cibo è prestigio sociale, il cetomedio alto (avvocati, editori, musicologi, medici e così via) si riunisce intorno a tavole imbandite di cacciagione, in prestigiose residenze di campagna, ma non per la crapula soltanto, bensì spesso per parlare di cose importanti, di strategie industriali o politiche, di cultura e così via, senza neppure escludere l’animosità e la lite, a indicare che quella mensa non è solo pensata per la “panza”, ma anche per lo spirito. Il cibo stesso, sempre in Francia, dal momento dell’esposizione per la vendita a quello della portata in tavola, pronto per essere degustato, sottostà ad una precisa regia di presentazione che ne accentua la nobiltà: Il Pranzo di Babette, film largamente sovrastimato, da questo punto di vista appare fortemente emblematico di una civiltà che si può svenare finanziariamente pur d’ imbandire regalmente la propria identità. Vatel raggiunge il sublime col proprio suicidio, quando questa possibilità gli viene negata da un disguido tecnico (la mancanza di pesce). Lo scempio più grande per i francesi fu quello di vedere la carne sparsa per il giardino nell’ultima scena de La grande bouffe di Ferreri.

Il cibo in Spagna significa spesso “termometro” di sopravvivenza sociale, nella più classica tradizione picaresca e donchisciottesca: l’ hidalgo caduto in miseria possiede le mura del palazzo patrizio, ma dentro non ha più nulla. E in questa tradizione s’inserisce Tristana che aggiunge al cibo la connotazione sessuale –la povera, orfana Tristana inzuppa lunghi ritagli di pane bianco dentro l’unico uovo alla coque che si trova in tavola e li estrae macchiati di rosso d’uovo oppure i preti che, come corvi, nel finale dello stesso film, raccolti intorno alla tavola dell’hidalgo ritornato ricco (un Ferdinando Rey da monumento!) inzuppano schegge appuntite di zucchero meringato nelle tazze piene di cioccolato caldo, denso come una fanghiglia.

Il cibo in Inghilterra, nettamente sottoclassificato rispetto alla bevanda, viene indagato senza eccessiva distinzione fra cotto e crudo: il montone macellato clandestinamente in Ken Loach e venduto clandestinamente a giro per i pub, il porco in Pranzo reale che quando arriva in tavola finalmente cotto con una mela in bocca, tutt’ad un tratto rinasce in un nuovo porcellino festante, allattato al biberon.

Nel cinema americano il cibo subisce la peggior sorte, a cominciare dalle comiche con le torte in faccia. Il cibo americano è notoriamente nauseabondo, ma la funzione che gli viene largamente attribuita nei film è ancora più immonda, perchè significa ricchezza e spreco. I bambini pestiferi affondano le manine in enormi secchi di gelato e se lo lanciano cogliendo anche la gamba di Elisabeth Taylor in La gatta sul tetto che scotta, e la gatta sale in camera a cambiarsi le calze di seta per sedurre il marito demotivato e alcolista. Questo disprezzo del cibo con conseguente rifugio nel sesso ha prodotto scene “storiche” come in Nove settimane e mezzo, ma produce anche l’effetto di stomacare lo spettatore sia di fronte al cibo che di fronte al sesso. Non parliamo poi del cibo e del delitto, dove le teste si accasciano su tavole di ristoranti (Il Padrino parte prima) o vengono annegate in zuppiere bollenti (Spartacus). In effetti gli americani sono dei grandi moralisti e lo dimostrano ad ogni passo. Il moralismo americano ha prodotto solo poche scene appetitose: la bistecca del cow-boy (L’uomo che uccise Liberty Valance di J. Ford) e la caffettiera appoggiata a due sassi nel bivacco sotto le stelle.

…e si potrebbe continuare all’infinito.

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