Intervento. “La sala, Almodòvar ed io” di Caterina Donatelli

almodovarHo visto il film Gli abbracci spezzati nel vecchio cinema anni ’50 del mio paese, questo già cambia tutto. In sala solo sei persone: io, la mia amica Gina, l’anziana fotografa, due vivaci signore che ogni domenica passeggiano sottobraccio in piazza, un uomo con il cappello in testa e le mani incrociate sopra al manico curvo di un grosso ombrello scuro, tenuto dritto in mezzo alle gambe.

Mi guardo attorno; sul soffitto un rettangolo incorniciato da una linea di lampadine, proprio come negli specchi dei camerini degli attori, segna la copertura piana lignea logorata dal tempo. Anni fa, nelle caldi notti estive, si apriva e potevi guardare le infinite stelle e nei giorni giusti, la luna entrava nell’inquadratura. Grande fonte di stupore e meraviglia per me: appena sentivo il rumore dei pannelli sui binari, mi correva dentro l’emozione. Ricordo la stessa sensazione, al momento dell’apertura del sipario o quando il telo bianco opaco veniva invaso dai fotogrammi. Le pareti color crema a contrasto con il bordeaux dei pesanti tendaggi di velluto, vegliano sulle poltroncine imbottite sostituite a quelle in legno lucido scomode ma, più sincere e in sintonia con lo spazio che le accoglieva. L’umidità si è fatta strada tra gli spessori dei muri e qua e la, grosse macchie aggrediscono superfici verticali, distaccando il lavoro di anni di riparazioni e tinteggiature sovrapposte.

Si spengono le luci, parte la musica, inizia il film. Faccio fatica ad entrare nella storia: tempi lenti, teatrali, accumulo immagini e umori dei personaggi senza capire cosa devo farne. Tutto procede senza quel misterioso rapimento emotivo che abita dentro i grandi film.

Mi perdo studiando gli stacchi delle riprese, analizzando i colori della fotografia, memorizzando le scenografie, voltandomi a guardare se la mia amica si sta annoiando. Sono sempre preoccupata dei sentimenti di chi mi accompagna a vedere un film scelto da me.

All’improvviso vengo travolta. Tutto ha inizio quando il vecchio industriale-produttore, seduto nervoso sulla sua poltrona lussuosa, osserva le immagini mute dei due amanti. Le bocche si muovono veloci sullo schermo, lui con lo sguardo perso accecato dalla gelosia sgrana gli occhi tentando di capire cosa si dicono.

Qui parte il mio trip: il non ritorno. Inizio a tessere parole fra i pensieri: cecità da possessione, cecità d’amore, cecità da rancore, cecità da fuga, cecità. Occhi, gesti, cose prendono posizione in fila geometrica. Si attua lo svelamento. A questo punto sono dentro.

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