“A 40anni: perché continuare ancora a parlare del 1968?” di Gianni Quilici

Sessantotto2A 40anni dal ’68, perché continuare a parlare del ’68?Innanzitutto per una ragione “politica”, che qui posso soltanto accennare.

Il pianeta Terra è sull’orlo di una possibile catastrofe: rischi reali di guerra nucleare, enorme sottovalutazione della “questione ambientale”. Tra la diplomazia e la guerra si sceglie (spesso) la guerra (fredda o calda che sia); tra l’ambiente e il profitto si sceglie decisamente il profitto. I problemi non vengono visti attraverso le cause, ma solo per i loro effetti. La logica vincente diventa “occhio per occhio, dente per dente”. In questo contesto la concentrazione dell’informazione in pochissime mani e l’uso spregiudicato con cui essa viene utilizzata per indirizzare sentimenti e pensieri diventa un veicolo fondamentale. (Si legga l’utilissimo e recente libro di Furio Colombo Silenzio stampa, l’Unità-Editori Riuniti, € 6.90)

Il ”68 nel suo profilo più alto ha fatto, invece, due cose attualissime, che lo rendono quanto mai vivo: uno, ha messo in discussione il sistema alla radice: nel modo di produrre, consumare, distribuire ricchezze, formare, vivere ecc; due, ha prodotto l’esplosione di una vita collettiva intellettualmente appassionante, umanamente esaltante, un moltiplicarsi della comunicazione, un sentimento di emancipazione, una capacità di organizzarsi per migliaia e migliaia di giovani, che investirà e si allargherà alla società propagandosi nelle fabbriche, nelle istituzioni totali, sui diritti civili e nella messa in discussione dei ruoli sociali.

Tuttavia questo movimento era troppo giovane, troppo prodotto di una società cattolico-piccolo borghese, troppo ìmpari rispetto alla crisi di ristrutturazione neo-capitalista in atto per costituire davvero un’alternativa.

Ri-presentiamo poi il ’68 per una ragione specificatamente cinematografica.

Una banale premessa: senza gli anni sessanta non ci sarebbe il ’68; o, anche, per capire questa stagione vanno compresi gli anni sessanta. In quella fase storica ci sono, infatti, i germi più vitali e nuovi, ancora oggi attualissimi. Per la società, per la cultura, per il cinema. Anzi, si può dire che il vero ’68 sono gli anni 60, compreso naturalmente il biennio 1968-69.

Perchè sono gli anni esistenzialmente più complessi, perché più aspro è stato il conflitto repressione-liberazione, perchè la prima ondata di liberazione non è stata per niente legata a ideologie ossificate, perché anche il linguaggio è stato messo in discussione in molteplici modi e con una radicalità, che non è diventata però formalismo.

Ecco infatti che esplode una ondata di film che rompono con il passato: il Free Cinema, il cinema underground, la Nouvelle Vague, il cinema verità, il Cinema Novo. Ecco nuovi registi scandalosi, provocatori, sgrammaticati, visionari: i Cassavetes, i Godard, i Rocha, gli Oshima, i Pasolini, i Mekas, i Rouch

Poi con gli anni 70 la crisi del 68, che in Italia avrà un lungo percorso, diventa anche la crisi dell’intellettuale, della sfiducia nel cambiamento e della rappresentazione stessa. Inizia un periodo che banalmente si potrebbe definire di “restaurazione” o di “riflusso”.

I (miei) film

Se dovessi (io) indicare film simbolo (in Italia per circoscrivere) di questo periodo, per ciò che ho visto, risponderei in questo modo.

Per il pre-68: senza dubbio “I pugni in tasca” di Marco Bellocchio e non sarei, credo, il solo. Perché ci sono gli anni ’60 in una provincia cupa e senza orizzonti ed un personaggio, Ale, che raccoglie sia la violenza omicida, l’attrazione verso la morte, l’impotenza e l’astratto furore che la solitudine e la timidezza, l’entusiasmo verso l’esistere ed un’istrionica e teatrale ironia, che gli dà una dimensione estetica e metaforica ben oltre il neo-realismo.

Per il ’68: non trovo un film che rappresenti davvero questa stagione nelle sue debolezze, ma anche nelle sue trasfigurazioni. Li trovo fuori dall’Italia in un cattivissimo film di Oshima “Notte e nebbia sul Giappone” o in “Ice” di Robert Kramer, nei primi film di Glauber Rocha.

Ma se proprio dovessi… sono due le pellicole che m’intrigano. Uno, il film forse più narcisista e individualista del cinema italiano, quindi per antonomasia il più anti-’68, “Nostra signora dei Turchi” di Carmelo Bene, perché nello stesso tempo è anche il più libero, il più visionario, il più sarcastico, quello che più si afferma e più si nega, il più sorprendente allora come ora. Oppure “Blow up” di Michelangelo Antonioni, perché è un film su un personaggio scisso tra la poesia e la moda, tra la ricerca fotografica “militante” e la libertà pagana dell’eros, che ha nello sguardo frenetico, poetico e microscopico del fotoreporter David Hemmings, un problema che, oltre ad essere esistenziale, diventa filosofico: il dubbio. “Vedo? O ciò che vedo è solo apparenza? Qual è la realtà? Quale la verità?”

Per il post-68, invece non ho dubbi: “San Michele aveva un gallo” dei Taviani, perché la crisi dell’idea di una “rivoluzione” dall’alto affonda in un personaggio complesso e irrisolto in tre scenari di indimenticabile limpidezza (soprattutto la laguna veneta) e, pur rappresentando un rivoluzionario ottocentesco, (esso) ha la forza metaforica di parlare di ieri come di oggi.

Se poi si volesse tra i film di quegli anni arrivare ad oggi “La grande abbuffata” di Marco Ferreri rimane una grottesca, monumentale e dolente ballata sulla nostra possibile fine: i consumi che ci stanno sempre più mangiando.


da La linea dell’occhio 60

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