“La questione dell’attore” di Susanna Pellis

Sono stati pubblicati di recente due interessanti contributi sull’attore cinematografico. Il primo è un articolo di Paolo Mereghetti intitolato La politica degli attori («Ciak», febbraio 2004), mentre su «Segnocinema» è uscito uno speciale sull’argomento (L. Bandirali, E. Terrone, L’uomo senza macchina da presa, «Segnocinema», marzo-aprile 2004). Come sa bene soprattutto chi li ama, non esiste molta letteratura sugli attori di cinema; la recitazione per il grande schermo – a differenza di quella teatrale – non è mai stata troppo indagata, perché gli studiosi hanno per lo più privilegiato altri aspetti nell’analisi dei film, di solito la regia, ma anche la sceneggiatura, o la fotografia, piuttosto che la recitazione.

Paolo Mereghetti invece ricorda che gli attori sono «la carne e il sangue del film»: sono i loro volti, corpi e atteggiamenti a far sì che le idee del regista prendano forma sullo schermo, diventando «qualcosa di concreto, di indimenticabile». A patto però che il regista mostri affetto per loro, li lasci respirare, crescere come personaggi; e anche se questo richiede delle deviazioni, delle parentesi nel suo percorso narrativo e stilistico. Quasi a dire che l’attore, e con lui il personaggio, vive soprattutto nelle pause, nelle sfumature del film.

Da parte loro Enrico Terrone e Luca Bandirali su Segnocinema, nella convinzione che la recitazione cinematografica possieda una propria autonomia estetica e nel tentativo di colmare quelli che definiscono «buchi neri della teoria», si mettono alla ricerca degli elementi necessari a giudicare l’attore in un film: li individuano nello stile (voce, movimento, volto), nella relazione con vicende e personaggi (anche con quelli interpretati in precedenza) e nel rapporto con la messa in scena (regia, co-interpreti, scenografia). Ma soprattutto, nella parte conclusiva e più stimolante dello speciale, sostengono che il film si genera all’interno di un triangolo i cui vertici sono l’attore, il regista e lo spettatore.

Spunti d’osservazione, proposte di analisi, da raccogliere e approfondire: sarebbe tempo che quello attoriale non fosse più considerato solo un fenomeno per non addetti, un territorio da fan (è innegabile, del resto, la differenza che passa fra l’attore e il divo). Esistono, certo, registi che mortificano gli attori (fra i grandi: Hitchcock, Fellini, Kubrick), ma sono molti di più i registi che li amano, e che costruiscono con loro il film. Si tratta di una scelta morale, come quella fra il montaggio e il piano-sequenza.

Per quanto mi riguarda, sono fortemente convinta che gli interpreti contribuiscano non solo alla riuscita ma proprio alla creazione, alla produzione di senso di un film; che ne siano insomma co-autori: basti pensare a quante pellicole non sarebbero state le stesse, o non sarebbero state affatto, senza quei determinati protagonisti (il migliore degli esempi recenti è Lost in Translation, di Bill Murray almeno quanto di Sophia Coppola). La mia è una convinzione soprattutto affettiva, emozionale; del resto proprio di questo tipo è – a mio parere – il contributo dell’attore al film: un sovrappiù di emozione, un’aggiunta di senso, non facile da descrivere o da analizzare. Qualcosa che mi è sempre sembrato riconducibile al senso ottuso di cui diceva Roland Barthes: un terzo tipo di significato, oltre al livello informativo e a quello simbolico, più propriamente filmico proprio in quanto non può essere descritto, che Barthes definisce per approssimazione “quasi un accento, un supplemento, qualcosa di indifferente al racconto; sfuggente, discontinuo, ma al tempo stesso ostinato”” Ē per questo che la performance di un attore risulta tanto facile da cogliere ma quasi impossibile da raccontare.

“Vorrei sottolineare infine – perché non sono così sicura che sia ovvio come dovrebbe – la necessità di guardare gli attori in versione originale. Volto e movimento devono necessariamente conservare la voce corrispondente. Non si tratta di snobismo, tanto meno di mettere in dubbio la bravura dei doppiatori italiani: la questione non è di comprendere quello che dice un interprete, ma proprio di sentire come lo dice. Con che voce, e con che variazioni di voce. Per spiegarmi meglio non posso che suggerire l’ascolto originale di Ralph Fiennes in Spider (Cronenberg, 2002), la sua straordinaria dizione agglutinata che in italiano è andata perduta, insieme – tra l’altro – al senso supplementare che proprio quella scarsa comprensibilità aggiungeva al film. A voler essere intransigenti (e quasi baziniani), in casi come questo si dovrebbe parlare addirittura di doppiaggio proibito.

I commenti sono chiusi.