“Austerlitz” di Sergei Loznitsa.

austerlitzdi Gianni Quilici

Ho chiesto ad un’amica la sua impressione a caldo subito dopo la fine del film. “Sono cose che sapevo già” la sua risposta.

Infatti Austerlitz rappresenta ciò che ognuno di noi può osservare entrando in una qualsiasi mostra che diventa evento di massa. Solo che il doc-film ci mette in un angolo di una sala come spettatori e ci fa vivere il percorso di un campo di concentramento, divenuto museo, il Sachsenhausen, dall’inizio quando i visitatori entrano dalla cancellata sulla quale campeggia la scritta Arbeit macht frei, alla fine quando ritornano, seguendoli lungo il percorso attraverso gli orrori di ciò che è stato (camerate, camere a gas, forni crematori, pali per impiccagioni), che oggi sono soltanto spazi che evocano o possono evocare soltanto con l’immaginazione ciò che allora, atrocemente, accadde.

Ecco che di tutto questo noi vediamo  soprattutto i volti dei visitatori.  Sono volti distratti, annoiati, spaesati, stanchi, di corpi che camminano, vagano e si fermano appena; che mangiano, sorseggiano, telefonano, fotografano, si fotografano o si fanno fotografare. Gruppi accaldati e devitalizzati che stancamente seguono la lezioncina o gli  ordini della guida.

L’uso della fotografia è poi banalissimo. Nel più felice dei casi fotografano senza guardare con una sorta di coazione a ripetere. Altre volte lo scatto fotografico, di fronte o dentro spazi che richiederebbero silenzio e attenzione, è aberrante.

Chi sono questi volti massificati anonimi e serializzati? Siamo noi, senza per questo voler essere autolesionisti. Non tutti, anche nel film, sono così, infatti. C’è chi si ferma,  osserva o legge. Sono pochi, ma sono quelli che indugiano, che trasmettono un’espressione, un’anima.

Ma è la stragrande maggioranza dei turisti, che indica quale sia l’antropologia umana più diffusa oggi in Europa e in generale nell’Occidente. In questo senso Austerlitz ci rappresenta tutti. E ci rappresenta, come altri hanno sottolineato, senza giudicare. Infatti il regista Sergei Loznitsa ha posizionato diverse videocamere fisse e abilmente nascoste in alcuni luoghi chiave del percorso e sono state loro a rappresentare ciò che di lì passava. “Questi noi siamo” le immagini ci dicono; trarne le riflessioni e le conseguenze sta ad ognuno di noi. Ma questa sorta di banale naturalismo (per la maggioranza noioso), finisce tuttavia, nella sua ossessiva ripetizione, almeno a tratti, per diventare allucinatorio e, alla fine, simbolico. Corpi serializzati che vagano incrociandosi senza guardarsi, senza vedersi e senza un minimo di orizzonti ne’ personali, ne’ comuni.

Se queste cose lo spettatore cinematografico già le sapeva e si è sostanzialmente annoiato è perché questa folla  vista e rivista,  non l’ha tuttavia sentita e forse non l’ha pensata a fondo come necessita. Perché Austerlitz ci dice: non osserviamo, ne’ sentiamo più, sempre di più ci avviamo a diventare, senza saperlo, robot da “altri” guidati; e ci   lancia un avvertimento inquietante. “C’è un gregge che forse senza saperlo aspetta un pastore”.

C’è infine da chiedersi: può essere un museo della Memoria, luogo di raccoglimento e di meditazione sugli orrori della nostra Storia, essere trasformato in una sarabanda senza senso con comitive e pranzi al sacco?

Austerlitz di Sergei Loznitsa. Documentario. B/n durata 94 min. – Germania 2016.

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