“Eric Rohmer” nota di Gianni Quilici

imagesRohmer è il poeta-regista del quotidiano.

Un quotidiano selezionato, necessario, mai banalmente naturalistico. E’ il poeta della leggerezza e della seduzione, della complicità e della macchinazione, di quella infinita messa in scena che sono gli incontri, le parole, lo sguardo.

Nei film la tragedia, anche quando circola, è infine lieve, non esprime impossibilità, chiusura di orizzonti, fine. In un paese come la Francia, con una fortissima identità nazionale ed ancor più cinematografica, Rohmer (mi) appare come il più francese tra i registi francesi. Perché è quello in cui, forse ancora più che in altri, si sentono Parigi o la provincia e quel paesaggio urbano e rurale (tipicamente) francese, quello in cui i più fulgidi rimangono i luoghi degli incontri ed i sistemi di relazione interpersonale.

C’è uno stile Rohmer (che si è diffuso) ed è riconoscibilissimo. Cerchiamolo attraverso Racconto d’autunno. Intanto una grande sceneggiatura. In qualsiasi momento sarebbe difficile, se non impossibile, prevedere “ma ora come si svilupperà”, perché ciò che succede ha la freschezza di personaggi in divenire, in qualche misura, cioè, liberi e seducenti, che si rivelano, nel loro quid, originali.

Gli attori e soprattutto le attrici (tutti bravissimi) non solo recitano con la consueta naturalezza rohmeriana, ma questa naturalezza è sorretta da una “scrittura” che rende spesso questa recitazione sorprendente. La sorpresa e la gioia per noi spettatori sorge da personaggi-attori che sono (o appaiono) essi pure sorpresi dai meccanismi intellettuali con i quali si relazionano. La nostra sorpresa è la loro libertà che (d’improvviso) si rivela.

Allo stesso modo, il filo del percorso scenografico, apparentemente trascurabile (dai filari di vite alle stradine di campagna, dal bistrot al giardino della festa), finisce inavvertitamente per assumere una dimensione interiore, che è la dimensione interiore della storia; ossia la macchinazione che disvela sentimenti forse ambigui, certo irrisolti. La macchina da presa non si fa vedere, né sentire. Essa è lì, segue lo svolgersi, alla distanza giusta, per farci prendere nel film. Non addosso e senza alcuna concitazione. Non per farci identificare, ma progressivamente partecipare. Spettatori dentro e spettatori fuori. Con la testa e con il cuore.

Sedotti, non alienati.

da La linea dell’occhio rivista n.

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