L’AMORE DEI FRANCESI VERSO CARMELO BENE
di Mimmo Mastrangelo
Quanto in Francia sia stato amato Carmelo Bene (Campi Salentina 1937 – Roma 2002) lo confermano i vari omaggi a lui dedicati nel recente passato, si ricordi, tra gli altri, la rassegna sui suoi film promossa dal Centre Pompidou pochi mesi dopo la morte o al convegno organizzato nel 2013 da due atenei parigini e i cui atti sono stati poi pubblicati in un numero speciale sulla prestigiosa “Revue d’Histoire du Théâtre”.
Per comprendere l’attaccamento dei francesi all’attore e regista pugliese possono aiutarci le pagine di Carlo Alberto Petruzzi “Carmelo Bene a Cannes” (edizioni Mimesis, pag. 137, euro 16,00), un volume che approfondisce in modo particolare la breve filmografia di Bene e di come i film, girati fra i 1969 e 1973, furono determinanti per far conoscere in Francia anche la produzione teatrale ed altro. Per questa sua ricerca Petruzzi ha intervistato personalità del cinema e della cultura, che conobbero e frequentarono Bene come il regista e direttore di prestigiosi festival Pierre-Henri Deleau, il docente di letteratura italiana all’Università di Lille Jean-Paul Manganaro, lo storico del cinema Jean Narbon e il regista e critico Noël Simsolo, quest’ultimo ebbe modo di partecipare al montaggio di “Ventriloquio” (1970) un cortometraggio di cui si perse le tracce .
Oltre a quattro produzioni brevi, Bene girò sei lungometraggi e tutti passarono sullo schermo del Festival di Cannes. Nella sezione della “Quinzane des Realisateurs”, quella più seguita dallo “spettatore cinephile”, vennero selezionati “Nostra signora dei turchi” (1968), “Capricci” (1969) “Don Giovanni” (1970) e “Salomè” (1972), mentre l’ironico e malinconico “Un Amleto di meno” (1973) passò in concorso senza l’ enfasi della critica e del pubblico che avevano amato i precedenti lavori.
A parte quest’ultima parentesi non esaltante, va riconosciuto che, grazie alla notorietà acquisita attraverso i film, l’attore e regista inizierà ad essere conosciuto, anche sui palcoscenici di Francia. Carmelo Bene – fa notare Pierre-Henri Deleau – si presentò al pubblico e alla critica d’Oltralpe con un cinema di rottura al limite dello sperimentalismo e dell’underground, orientato a prendere totalmente le distanze dal cosiddetto “buon cinema, quello ben fatto e girato”.
Il lavoro dietro (e davanti) la camera da presa diverrà per Bene un registro per marcare lo scollamento tra corpo e voce, analizzare omologati codici filmici e svelarne la loro inutilità. Il cinema di Bene è stato (e rimane) <<una miracolosa e folgorante visione rispetto alle immagini proiettate . Non un cinema diverso ma un cinema dell’abbandono, un cinema-esperienza che non sta nella pellicola o nel limite bianco dello schermo, ma da rintracciare altrove>>. Il breve ed interessante saggio di Carlo Alberto Petruzzi si chiude analizzando il “Don Chisciotte messo in scena al Theatre Marigny di Parigi nel 1970 e al succitato “Ventriloquio”, due lavori che associati a tutte le altre opere (filmiche, teatrali, libresche) dimostrano come Bene sia stato un artista inimitabile, un talento impertinente ed irraggiungibile che ha fatto quello che ha voluto.