“Il miracolo” di Edoardo Winspeare

di Gianni Quilici

Il sentimento che percorre il film, fino a diventarne l’essenza, è un dolore muto, incapace di trovare parole, una ferita da cui si è ancora incapaci di difenderci, perché  ancora si è troppo giovani: lui, adolescente di scuola media; lei ragazzina 18enne, che s’arrabatta con lavori precari. Dietro a lei soltanto una madre, che, a sua volta, vive una condizione di precarietà sentimentale; dietro a lui un padre arrivista e aggressivo, che nasconde, sotto la maschera autoritaria e menefreghista, incapacità e frustrazione ed una madre subalterna, che si ritaglia una nicchia di esistenza coltivando la speranza del “miracolo”. Ritratti  certamente già rivisti, ma veritieri e senza venature moralistiche.

       Il “miracolo” comunque è lui, il ragazzino. “Miracolose” sembrano le sue mani, perché sono riuscite forse laddove la scienza sembrava fallisse. Il miracolo però non regge. Il ragazzino non sarà il novello padre Pio.

 Winspeare è sottile, perché, nel momento in cui evita il rischio, per altro ingenuo, di una santificazione, rappresenta il vero miracolo, il miracolo della realtà, in questo caso del film.

Nel film c’è, infatti, anche un filo “alternativo”, che è l’altra faccia della ferita: sono le corse in motorino o il porto come rifugio al dolore e alla solitudine, nella luce radente del tramonto e nella bellezza, malgrado tutto, dello sfondo delle acciaierie, che hanno lasciato tracce cancerogene mortali nei loro operai; fino al finale, punto più alto del film, che da solo ne meriterebbe la visione.

Winspeare sa orchestrare efficacemente la tragedia su tre piani tra loro dialettici: la processione fantasmatica come rito collettivo, popolare, folcloristico, spettacolare, in omaggio e in esorcismo alla morte, e come contrappunto l’esplosione-implosione muta, solitaria, autodistruttiva della ragazza, abbandonata ancora una volta dalla madre e capace soltanto di distruggere, distruggere e distruggersi. In questo contrasto la corsa ansiogena del  ragazzo, che intuisce una possibile tragedia e che si slancia lungo la città, attraversa la processione, e riesce infine a scovarla (la ragazza). Dialettica dei contrari: voci/silenzio/musica, tragedia/spettacolo, ndividuo/collettività, immobilità/movimento. La chiusa del film non è  la soluzione dei problemi, è lo spazio sempre aperto della fragile precarietà di due giovani esistenze, che continuano a vivere con un orizzonte davanti, a cui si può guardare.

Winspeare con Il miracolo (diversamente che da Sangue vivo, film più antropologico, che aveva anticipato, se vogliamo, una pellicola come Respiro) si avvicina ad un filone che ha in Marco Tullio Giordana (Cento passi e La meglio gioventù) ma anche in Michele Placido (Del perduto amore   Un eroe borghese ) i suoi registi più significativi: film, quelli più dichiaratamente  politici, che tuttavia, come questo, colpiscono al cuore, senza i ricatti del sentimentalismo, che raccontano storie con passioni forti e in cui il linguaggio è dentro la storia, quasi invisibile. Che si rivolgono, quindi, al grande pubblico e che, a volte, non lo raggiungono come meriterebbero.

Linguaggio chiaro e diretto, ma raffinato: si pensi, in questo film, alla funzione liberatoria delle musiche “battenti e pagane” eseguite dall’Officina Zoè, alla luce meravigliosa catturata da Paolo Carnera o all’intensità degli sguardi dei due giovanissimi interpreti, qui all’esordio: Claudio D’Agostino e Stefania Casciaro.


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