Il festival di Torino, edizione 2012, ha presentato una retrospettiva di Joseph Losey: tanti film belli, alcuni bellissimi, altri interessanti, anche se controversi; l’angolatura è quella delle dinamiche del potere e delle differenze di classe, dei rapporti di forza, della seduzione e dell’asservimento.
Una perla in questa vasta produzione è costituita dal Don Giovanni di Mozart. Non un’opera filmata, ma un film-opera, ambientato ben lontano dalla originaria Siviglia, fra il mare, la laguna, la campagna veneta e le architetture del Palladio, in particolare la “Rotonda”, luogo centrale degli eventi.
L’ambientazione ha una funzione simbolica, come a stabilire le coordinate di una storia al limite tra il finito e l’infinito, l’ordine e il disordine ( la perfezione delle misure palladiane dà fin dall’inizio, con il duetto tra Donna Anna e Don Giovanni ed il successivo duello tra quest’ultimo ed il Commendatore, inseriti nella scalinata esterna della Basilica di Vicenza e nel cortile, il segno di un equilibrio contraddetto dal turbinio delle vicende che si svolgono, ma alla fine ambiguamente ricomposto ), l’umano e il soprannaturale, la realtà e la finzione ( per due volte ricorrono le prospettive vertiginose del Teatro Olimpico di Vicenza: nel corso dell’ouverture, quando sfilano come immemori e smarriti i personaggi,di cui sono riconoscibili solo Don Giovanni e Donna Anna, e nel sestetto del secondo atto, messo in scena davanti ad una ristretta platea, dove spicca un’eminenza cardinalizia ).
Losey ed i suoi collaboratori Rolf Liebermann e Frantz Salieri operano una scelta registica di estrema libertà di movimento: il “dramma giocoso” fluisce spostandosi continuamene in interni ed esterni e dagli uni agli altri e supera incongruenze o difficoltà di accostamenti spazio-temporali. Inoltre si dà spazio, con discrezione e plausibilità, a scene che suggeriscono risvolti non palesati nella rappresentazione teatrale:durante l’ ouverture entriamo, insieme a Don Giovanni e a Donna Anna e al loro seguito, in una vetreria,dove i volti dei personaggi sono intensamente e misteriosamente illuminati dalle fiamme, motivo premonitore del finale; mentre Leporello canta l’aria del catalogo, ad un certo punto cogliamo il dettaglio degli occhi di Don Giovanni, che fissano una fanciulla, sorpresa nella sua nudità mentre fa il bagno, che istintivamente fa un gesto appena percettibile di ritrosia vergognosa.
Grazie a questa “libertà” interpretativa, viene data una lettura storica e di classe all’opera. Prima dei titoli di testa, fissi su eleganti disegni classicheggianti, appare una scritta sulla rappresentazione grafica di un muro di quella che sembra essere una cella: -“Il vecchio muore e il nuovo non può nascere; e in questo interregno si verificano i fenomeni morbosi più svariati.” Antonio Gramsci-
Seguono i titoli; nel sottofondo, i l rumore delle onde del mare, che delimita e apre…
Non è un caso che dal mare giunga la barca con a bordo le tre maschere fatali, portatrici di verità e di vendetta.
Il nitore e la monumentalità delle architetture del Palladio, è il bianco e il nero, acconciature e abiti a metà tra l’esattezza filologica e l’esasperazione stilizzata contraddistinguono il mondo “ ancien régime”; un giovane valletto, sempre in nero, sembra un inquietante servo-regista, che guarda, asseconda e protegge le mosse di Don Giovanni.
Al popolo sono riservati colori caldi e il rigoglio della natura.
Fra i due mondi, contaminazioni e ambiguità, come del resto è esemplificato dalle danze della festa in casa di Don Giovanni, o dall’episodio dello scambio degli abiti tra il protagonista e Leporello.
In questa realtà di contrasti, una regia inquieta indaga, perlustra saloni e corridoi, si perde nei labirinti dei giardini, per poi fermarsi sulle sponde del mare: la laguna, dove l’occhio si perde e l’orizzonte è confuso da una grigia nebbiolina.
L’edizione dell’opera è quella registrata dalla CBS nel giugno-luglio 1978 nella chiesa di Notre Dame du Libane a Parigi, con Lorin Maazel che dirige il coro e l’orchestra del Teatro Nazionale dell’Opéra di Parigi. Una direzione, che è stata oggetto di discussioni e di pareri contrastanti, ma che è comunque vivace e raggiunge punte di efficacia drammatica e di coinvolgimento emotivo. Una buona parte degli esiti di eccellenza raggiunti è dovuta a interpreti di lusso, che, tranne qualche eccezione ( ad esempio, il Don Ottavio di Kenneth Riegel è lezioso, insulso, velleitario: è stata una scelta consapevole? Ma la musica di Mozart dice qualcosa di più complesso ), danno vita a personaggi coerenti e convincenti, grazie anche a pregevoli prove attoriali. Tra tutti si distingue Ruggero Raimondi, che, con la sua voce profonda e duttile, dà vita ad un Don Giovanni elegante, sfuggente,affascinante. Incantevole anche il Leporello di José Van Dam, che riesce a tenere un equilibrio mirabile tra serietà e comicità. I ruoli femminili sono gestiti da grandi cantanti e grandi