di Davide Benedetto
Un certo senso del colore (rosso cardinale?) e un evidente gusto della liturgia, quella clericale e quella mediatica, accompagnano fin dall’inizio il racconto di questo anomalo Conclave lungo, che nasce all’insegna della collegialità e della condivisione, prosegue con la solitaria fuga d’un Papa suo malgrado per concludersi con la sua drammatica rinuncia finale.
Al centro vuole essere la fragilità dell’uomo davanti a se stesso, nell’affollarsi inutile dell’impotenza della fede, della solidarietà anche più sincera, della futilità ammiccante della psicanalisi. Lo sguardo è sull’anima, sul tormento dello spirito, sull evidente inevitabilità del dolore di vivere, del sapersi inadeguati. Ma è uno sguardo appannato, quasi accidentale. Perché la narrazione è solo funzionale alla tesi sviluppata, e la realtà rimane fuori scena: nonostante l’interpretazione pur autentica di Michel Piccoli, manca il senso profondo della casualità, della sorpresa, quella trama sottile e imprevedibile in cui continuamente ci impigliamo, che è la vita, la vita vera.
Moretti sceglie da subito di accantonare la realtà esterna del potere, della quotidianità, della banalità, per raccontare una realtà interna, personale, spirituale: ma lo fa in maniera macchiettistica, quasi episodica, senza una reale profondità, allineando luoghi comuni e banalità, non più divertenti o dissacranti ma soltanto scontati, prevedibili.
Manca poi qualunque riflessione specifica sul potere, fatto di alleanze e sconfitte, quello che sappiamo e conosciamo tra gli uomini, sulla temporalità della Chiesa, dipinta invece quasi fanciullescamente, con una certa affettuosità da ateo; abbonda invece il paradosso, il rovesciamento nel surreale, in una collezione di gag più o meno originali, finendo spesso per cercare l’effetto scenico.
Una storia così si poteva ambientare in un qualunque altro contesto di potere: perché il potere serve ad amplificarla e riverberarla (niente di meglio quindi del potere assoluto e trascendente dell’investitura divina, incorrotto e incorruttibile), e la scelta del Conclave, del Vaticano, della disarmata umanità del Papa sa di esercizio di stile, se non di furbizia commerciale.
Ecco quindi la fastidiosa furbizia di questo film: la rinuncia ad approfondire realmente il contesto umano che circonda i protagonisti, scegliendo per pura provocazione l’ambito del Conclave più che della Chiesa, come sfondo riverberante di una storia un po’ qualunque, di tutti e di nessuno in particolare, resa unica dal contesto colorato e sacrale in cui si svolge.
Sopravvivono comunque alcuni i momenti più vividi, come gli istanti dello sconcerto dei cardinali alla prima violenta e fuga dall’annuncio, la follia dell’attore cecoviano: tanto genuini da sembrare non a caso fuori posto in un film che, altrimenti, rimane fine a se stesso.