di Dante Albanesi
Forse è dal 1968 che i film hanno cominciato a finire male. E dunque (almeno in questo) a imitare la vita. Ne Il pianeta delle scimmie, Charlton Heston scopre su una spiaggia desolata il crudele geniale inganno narrativo che muove l’intera trama: la Statua della Libertà semisepolta dalle ceneri del tempo è una di quelle visioni impietosamente più grandi del film di cui sono prigioniere. Ma nello stesso anno, anche altre opere più coscientemente autoriali compivano la medesima inversione, uccidendo il lieto fine e le convenzioni dello spettacolo borghese. In Rosemary’s Baby, ciò che potrebbe sembrare il culmine dell’incubo è invece un’imprevedibile accettazione del male supremo, grottescamente virato a quotidianità: Mia Farrow stringe a sé il figlio avuto del demonio, mentre la sua ninna nanna spettrale si spande sui panorami di New York.
Stessa beffarda ironia ne La notte dei morti viventi, dove anche l’ultimo superstite dell’assedio degli zombi finisce ucciso dalla stupidità dei soccorritori. Una chiusa che Dennis Hopper imiterà in Easy Rider, con la morte assolutamente casuale e immotivata dei due motociclisti. Non potendo cambiare il mondo, il cinema si sfoga distruggendo se stesso: la trama, l’eroe centrale, ma anche il set come luogo fisico.
Con Hollywood Party, Blake Edwards mette in scena l’esilarante disfatta della macchina-cinema, prima facendo esplodere un fortino sotto il naso di un regista che non ha ancora dato il ciak alle cineprese, poi demolendo la villa del suo produttore, con la più straripante orgia di distruzione che il cinema ricordi. Perfino 2001: Odissea nello spazio, nel finale tagliato in extremis, faceva esplodere la Terra prima che il messaggio di pace del Bambino delle Stelle giungesse a redimerla. In fondo, sia l’astronauta Bowman che l’improbabile comparsa indiana di Peter Sellers (che kubrickiano era stato anche lui) inseguono la stessa missione: la scoperta di spazi nuovi da dominare, l’uccisione di un Padre oppressivo (il Computer-astronave, il potere del Cinema). Padre che può essere un Papa da fucilare (La Via Lattea) o persino l’incarnazione di un genere filmico, come in C’era una volta il West di Leone dove il western all’italiana (Charles Bronson), aiutato dal Neorealismo (Paolo Stoppa), sopprime il western classico (Henry Fonda). Tale cieco impulso antiautoritario muove anche Gangster Story di Penn e il suo “doppio” europeo Weekend di Godard, con il folle viaggio di una coppia di giovani tra orrore e sangue (eco in miniatura di ciò che le televisioni di tutto il mondo rimandavano dal Vietnam). Ne La vergogna Bergman ribalta specularmente il contesto: è la guerra a bussare alla porta dei due protagonisti, provocando una vile “evasione” dalla Storia che si rivela inutile, poiché la barca della loro salvezza s’incaglia in una barriera di cadaveri alla deriva.
Cos’è dunque il cinema del ’68 se non una fuga dal tempo e dallo spazio, contro il proprio tempo e il proprio spazio (la ragazza di Zabriskie Point che corre su un’auto inseguita da un aereo e con la forza del pensiero fa esplodere una villa e i suoi inutili elettrodomestici), un’inattesa rinuncia al proprio personaggio e ruolo sociale per trasformarsi in zombi, superuomo, vagabondo sospeso tra libertà e paura, come il Massimo Girotti di Teorema che abbandona la famiglia e cede la fabbrica agli operai, come gli allegri romani del Satyricon (nei quali Fellini vedeva gli hippy del presente). Come il giovane di Shave, che si rade, concentrato apatico assente, nel suo bagno bianchissimo, lindo come un sogno o uno pubblicità. Mentre si passa ancora la schiuma, sulla pelle intravedi un piccolo taglio. Una goccia scura cade sul lavabo, poi un’altra. Il volto, sempre impassibile, è coperto di sangue. Ma ora l’ultimo ritocco: un colpo sapiente del rasoio e la gola si apre, un torrente rosso inonda lo schermo (Scorsese poteva esordire solo nel 1968).
da “La linea dell’occhio” n. 60