“Laura Betti: la voce graffiante, profonda e spiccia…” di Marianna De Palma

Era il dicembre del 2002 e mi trovavo a Roma. La voce graffiante, profonda e spiccia, dall’altra parte del telefono mi disse che la settimana seguente sarebbe partita per Praga, per un convegno su “Pier Paolo”; avremmo dunque potuto incontrarci il giorno dopo o al limite i due successivi, così che prima della sua partenza potesse darmi dei libri da consultare per la mia tesi.

Naturalmente al telefono Laura Betti non si presentò, ma la riconobbi dalla voce, sentita nei film e nelle interviste alla tv, e dal modo di parlare inconfondibile – colto, perentorio, alle volte alla mano e “da strada”. Non avevo pensato che telefonando al Fondo Pasolini mi avrebbe risposto la Betti in persona. La cosa, a dire il vero, mi intimidì un po’… Forse metto troppa emozione in questo tipo di eventi, ma per me, pensare di parlare con l’amica del mio poeta, scrittore, regista preferito, la cui opera aveva cambiato tante giornate – e non solo – della mia vita, per me era un evento grandioso. Fu sempre lei a rispondere anche alle mie successive chiamate, fatte in quei giorni nel tentativo di fissare l’appuntamento che in realtà non si concretizzò, non in quel dicembre.

Durante i mesi che seguirono, di tanto in tanto telefonavo alla Fondazione, ma una volta la Betti mi diceva una cosa, giorni dopo mi diceva il contrario, prima era possibile consultare il materiale, poi non lo era più  – ora ne sorrido, ma al momento la situazione era disperata. Pensai di dover rinunciare a visionare i documenti originali e di dover recuperare altrove, più o meno, ciò che mi serviva.
Una mattina del luglio 2003 il telefono di casa squillò; la voce era quella jazz della Betti. Mi sentii come se avessi vinto una gara.

All’archivio di Roma la sua fondatrice non c’era mai: i problemi di salute non si conciliavano con il caldo estenuante dell’estate dello scorso anno, così era sempre a casa. Aveva lasciato a uno degli obbiettori che l’aiutavano indicazioni per le mie ricerche e, di tanto in tanto, telefonava per una supervisone e raccomandazioni su come trattare il materiale ecc.. In quei giorni ho toccato con mano il lavoro di Laura Betti, che, dopo la morte di Pasolini, si è occupata della conservazione e divulgazione della sua opera, in un modo a mio avviso straordinario, dedicandovi una grossa parte della sua vita.

L’archivio (trasferito di recente a Bologna) raccoglie tutti i testi dell’autore, gli originali battuti a macchina e scarabocchiati dal poeta, i tanti libri scritti su di lui, i suoi film, registrazioni radiofoniche, un’infinità di articoli, tutti catalogati dalla Betti, le tesi di laurea. Toccai con mano anche altro: la Betti non sopportava principalmente due tipi di persone, i mitomani, che ogni tanto si presentavano alla Fondazione alla ricerca di dettagli sulla morte del poeta e con la speranza di vedere qualche foto della sua autopsia, e gli arroganti, che telefonavano pensando di aver capito tutto e ancora di più su Pasolini.

La Betti poteva effettivamente avere alle volte un po’ un caratteraccio, ma come non darle ragione su queste diffidenze di fondo se si ama ciò che Pier Paolo Pasolini ci ha lasciato (anche per merito del suo angelo custode)? Diffidenza e gelosia ancora più grande perché lei amò il Pasolini persona reale, cosa di cui molti nelle loro critiche agli atteggiamenti della diva spesso si son dimenticati.

Prima di ripartire telefonai alla Betti, per ringraziarla, e le chiesi di poterle fare visita; ne rimase sorpresa. L’aiutante domestica mi aprì la porta della casa di piazza Cavour – ex sede dell’archivio -, e mi accompagnò nell’ampio salone, dove, insieme ad alcune persone, la Betti stava organizzando il suo intervento in un concorso di poesia, in occasione del quale avrebbe letto dei versi di Pasolini. Mi accolse con un lungo sorriso.

Aveva la riga nera di trucco sopra gli occhi azzurri, come nelle immagini di quarant’anni fa, come sempre; addosso una delle lunghe tuniche viste già nelle sue ultime interviste. Alle pareti i quadri di Pasolini. Ci offrì delle pesche dolci. Le altre persone se ne andarono e nella mezzora che rimase, mi sembrò che la cosa più inopportuna che potessi fare fosse porle domande sul carattere o la vita del suo amico Pasolini; ebbi la sensazione fortissima di poter violare qualcosa o di mancarvi di rispetto e non lo feci.

Mi parlò un po’ dei suoi acciacchi, e diva, come è sempre apparsa, si preoccupava della pelle rovinata delle sue mani, con un’umanità infinita e una dolcezza di bambina. L’aiutai ad aggiustare una vecchia rubrica telefonica che non voleva assolutamente buttare. Mi disse che Internet stava rovinando la società e i rapporti tra la gente; chissà che ne avrebbe pensato Pasolini.

da La linea dell’occhio n. 50

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