“Profondo Rosso” di Dario Argento

di Francesca Lenzi

La macchina da presa fissa il proprio frigido sguardo sulla porzione spaziale di un ambiente colto dal basso, la cui unica percezione, oltre l’irrisorio quadro esposto, risulta nel suono di una nenia infantile, colonna sonora dell’urlo sconvolgente che infrange lo schermo. La visione è negata. L’umiliante inabilità pare persino irritata ulteriormente dalla sfacciata concessione del coltello insanguinato, che irrompe sulla scena, elemento intrusivo nel campo vuoto, preceduto di poco dalle gambe ingombranti di un bambino.

Profondo Rosso, in Italia, viene considerato il capolavoro di Dario Argento, preferito all’estero dal soprannaturale Suspiria. In effetti, le due pellicole sono probabilmente le opere più riuscite, sia dal punto visto narrativo, sia nell’ambito linguistico, attraverso una caratterizzazione delle componenti nuova ed estremamente efficace, talvolta di uguale proposito.

La sceneggiatura è realizzata dallo stesso regista e da Bernardino Zapponi, collaboratore di Federico Fellini che, con lui, aveva condiviso i sogni lugubri e mortiferi della seconda parte della filmografia dell’autore riminese, tra i quali l’episodio del Toby Dammit, di Tre Passi nel Delirio, escursione horror tra l’onirico e il surreale. A livello testuale, Profondo Rosso, rappresenta il vertice assoluto di Argento, capace di alternare realtà spaventosa a istantanee di vaghezza allucinatoria. Se è certo che la storia prevede uno svolgimento verosimile, attraverso le azioni delittuose di un assassino misterioso, secondo la più classica delle stesure giallistiche, altrettanto sensibili si rivelano alcuni passi di ispirazione ossessiva, impronte decise dell’atmosfera delirante, impressa dall’omicida.

I luoghi, quasi sempre reali (eccetto il locale dove suona Carlo, omaggio, ricreato, al Nighthawks di Edward Hopper), perdono sensibilmente i tratti concreti per mezzo di un processo di definizione chimerica che si appropria degli ambienti. Lo spazio, forse più evidente in questo aspetto, è la Piazza C.L.N., a Torino, coinvolta, oltre che nei dialoghi tra Marc e Carlo, anche nella circostanza dell’appartamento della medium, Helga. Le inquadrature dall’alto, spesso eseguite con campi lunghi, sulle figure isolate e minuscole, anticipano la sequenza di Daniel, in Suspiria, cellula smarrita nell’immensità della Piazza dei Tre Templi. Anche Tenebre registra un importante momento all’interno di uno spazio aperto di estese dimensioni, prediligendo in questo però la natura minacciosa di un luogo sì dilatato, eppure percorso da una nutrita presenza umana. Profondo Rosso, all’opposto, concentra le occasioni di ansia e terrore in aree solitarie, nelle quali, le poche forme viventi (solitamente una o due), assumono una valenza di dolorosa solitudine, tanto da ricordare i penosi manichini dechirichiani, abbandonati negli scenari neoclassici, dipinti di venature malinconiche e incoerenti. La scena in cui Marc e Carlo parlano ad alta voce, distanti, ai lati della Fontana del Po, asseconda perfettamente tale senso di privazione, di distacco emotivo, prima che fisico, contagiando lo spettatore di una desolata percezione di lontananza.

Gli interni sono, invece, riempiti di oggetti che ne saturano la superficie, creando una condizione di pesantezza soffocante, nella quale il contatto con i corpi inanimati raffigura un motivo di angoscia e preoccupazione, grazie all’ambiguo rapporto tra uomo e entità inorganica, definibile in termini di confusa partecipazione e ostile origine del pericolo. Così si delinea l’appartamento di Helga, imbottito di arredi, manufatti, e soprattutto, quadri, fonte di disordine che induce il protagonista all’errore, scoperto solamente nel finale. Argento attribuisce all’oggettistica un valore essenziale, assegnando alle cose una qualità transitiva rispetto alle figure umane, tanto da concedere un’importanza pari a quella di un personaggio del racconto. L’oggetto interpreta il sentimento. Le scene fiabesche, con la carrellata scomposta sui vari feticci (giocattoli, armi, bambole, biglie colorate, stoffe), sullo sfondo di un piano nero, hanno la capacità di infondere la personalità distorta dell’assassino: tormento, follia, afflizione, delirio puerile, zampillano fuori dallo schermo. Queste sono le immagini della paura, la manifestazione più potente della pazzia che anima la mente perversa.

Profondo rosso stabilisce un nuovo arrivo anche per quanto riguarda il senso della morte. L’omicidio non è fine a sé stesso, non ha alcun valore in riferimento allo scopo di terminare una vita, ma trasfigura il gesto dell’assassino in un’opera d’arte. Il delitto viene concepito, rimandato, protratto, ed infine eseguito con sadica pazienza, ripreso nei minimi dettagli, secondo un’ostinazione di cinica perseveranza. È la fantasia che si realizza nell’estasi visiva, il passo precedente alla sfrenata stravaganza delle morti di Suspiria. La realtà più cruda viene sbattuta in faccia allo spettatore, non senza l’offerta, però, di una verità plasmata, coincidente con l’esposizione del sangue palesemente fasullo, uno strumento artefatto nelle mani sapienti del regista, attento a ricordare al pubblico l’esibizione di un prodotto artificiale, credibile per la genialità espressa, ma pur sempre effetto forgiato dall’artista.

La musica è un ulteriore elemento di novità: non più melodia, ma suono armonizzato. I Goblin rivoluzionano il senso dell’accompagnamento al film, componendo una situazione sonora che non si limita alla sfera del brano, ma contempla pure l’elemento delle voci e del rumore. Anche in questo caso, è pertinente uno sguardo al successivo Suspiria, nel quale il complesso acustico coinvolgerà ogni possibile intendimento. In Profondo Rosso, senza raggiungere tali livelli, si ravvisa un iniziale approccio al metodo, con la presenza di suoni evocanti il vento, i sussurri, le gocce d’acqua.

La sensazione di apprensione che investe la pellicola viene sostenuta senza difficoltà per l’intera durata, tanto da risultare a tratti insostenibile. La regia di Dario Argento evidenzia il talento per le riprese insolite, siano esse un’inquadratura dall’alto, precipitante verso il basso, che il dettaglio scagliato di un occhio truccato o di una bocca vermiglia, la soggettiva vacillante dell’omicida o l’accelerazione improvvisa. Tuttavia, è nell’elemento rivelatore che, probabilmente, l’inquietudine trova più ampia soddisfazione; quel ricordo confuso, riproposto mediante frequenza narrativa, che nel finale svela il mistero, dando compiacimento alla curiosità. È una costante nella filmografia argentiana; in Profondo Rosso raggiunge il parossismo: il regista osa rivelare all’inizio il volto dell’assassino, rischiando l’arresto del racconto; in verità è talmente sicuro del proprio ingegno, che si permette l’ammirevole beffa nei confronti dello spettatore, imbarazzato dall’ingenuità dimostrata, felice di tale mancanza.
Avete visto PROFONDO ROSSO di Dario Argento.

PROFONDO ROSSO
Regia:
Dario Argento
Sceneggiatura:
Dario Argento
Bernardino Zapponi
Soggetto:
Dario Argento
Bernardino Zapponi
Interpreti:
David Hemmings (Marcus Daly)
Daria Nicolodi (Gianna Brezzi)
Gabriele Lavia (Carlo)
Macha Méril (Helga Ulman)
Clara Calamai (Marta, madre di Carlo)
Eros Pagni (Calcabrini)
Giuliana Calandra (Amanda Righetti)
Glauco Mauri (prof. GIordani)
Nicoletta Elmi Nicoletta Elmi (Olga)
Produzione:
Salvatore Argento (Produttore)
Claudio Argento (Produttore esecutivo)
Montaggio:
Franco Fraticelli
Fotografia:
Luigi Kuveiller
Scenografia:
Giuseppe Bassan
Costumi:
Elena Mannini
Musiche:
Giorgio Gaslini
Goblin
Carlo Rambaldi – effetti speciali
Italia 1975.
Dur: 126′

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