Roberto Saviano: un monologo che “tocca” lo stato delle cose del mondo

Gianni Quilici

Saviano_1247078635La serata di Roberto Saviano a “Che tempo che fa” è stata uno “spettacolo” televisivo “anti-televisivo” come pochi altri.

Anti-televisivo, perchè non ricordo una trasmissione televisiva in prima serata così lunga (due ore), così vista (una media di 2 milioni e 838 mila spettatori con punte di 3 milioni e mezzo), in cui protagonista sia stata, in larga misura, la parola insieme al corpo di chi la dice.

Anti-televisivo anche per la qualità di questa “parola” (quasi sempre in televisione banalizzata, semplificata, brutalizzata, volgarizzata). Qui nel corpo di Roberto Saviano è diventata informazione, rappresentazione, poesia.

“Informazione” è evidente: Saviano ci ha raccontato storie tragiche ed emblematiche dello stato delle cose del mondo attraverso alcuni fatti-personaggi: lo scrittore nigeriano Ken Faro Wiwa, le studentesse iraniane Neda e Taraneh, il grande scrittore russo Varlam Salmov, la giornalista russa Anna Politkovskaja, il saccheggio di Castelvolturno.

“Rappresentazione”, nonostante che i supporti fossero poveri: un palcoscenico, il corpo di Saviano, un ritmo, poche immagini però di grande impatto a rafforzare ciò che le parole dicevano: il sangue che scorre sul volto -che poi vediamo bellissimo – della giovanissima studentessa iraniana Neda; o una zona idilliaca di Castelvolturno sospesa tra fiume, pineta, mare, che viene distrutta dalla famiglia Coppola per costruirci un villaggio turistico orrendo, che poi verrà abbandonato…

“Poesia” perché queste parole visualizzano una storia, te la fanno sentire nel loro orrore (l’inferno), ma anche nella straordinaria forza di una coerenza, di un coraggio, di una necessità, che, in certi momenti, sfida, è costretta a sfidare, la morte (la bellezza).

Roberto Saviano porta con sé l’energia delle verità radicali, la scansione lenta, calibrata, martellante delle parole come se fossero versi in prosa. Diventa una sola cosa concentrata: voce-volto-parola.

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